XXIII.

L’illuminismo in Italia

1. L’illuminismo italiano

Mentre l’Arcadia realizzava la sua maggiore espressione poetica nell’opera del Metastasio, essa veniva esaurendo la propria maggiore funzione e corrispondenza alla società e civiltà di primo Settecento, anche se rimaneva variamente attiva come accademia sempre piú arretrata e convenzionale e le sue istanze di gusto costituirono una base di educazione letteraria anche per molti letterati e scrittori della nuova epoca.

Di fatto la stessa base storica e culturale che aveva sostenuto la letteratura arcadica veniva lentamente cambiando e le forme del razionalismo e del suo piú cauto e prudente sforzo di rinnovamento si mutavano in quelle del crescente movimento illuministico, già vivo e attivo in altre nazioni occidentali (specie in Inghilterra e in Francia) e sempre piú diffuso anche in Italia non senza l’appoggio delle nuove corti e dinastie straniere instaurate in varie parti d’Italia sul finire della prima parte del secolo. Cosí la civiltà italiana, già sollecitata dal razionalismo, veniva ora piú fortemente spinta ad una vita civile e culturale sempre piú innovatrice, critica e attiva, dalla grande forza dell’illuminismo vero padre della civiltà moderna, molla essenziale di una cultura che cerca nella forza umana della ragione “illuminatrice” la rottura di ogni antico pregiudizio, di ogni subordinazione dell’uomo ad autorità incontrollate e sopraffattrici. Tanto che secondo una celebre definizione di Kant l’illuminismo fu come «l’uscita di minore età» dell’uomo, la presa di coscienza della sua maturità, la sua decisa volontà di conoscere il proprio mondo e quello della natura, senza arrestarsi di fronte a nessun divieto dogmatico, a nessuna convenzione tradizionale, a nessuna autorità religiosa o terrena.

Il grande movimento illuministico, la civiltà dei “lumi” della ragione, opposta all’“oscurantismo” del Medioevo e delle sue persistenze di pregiudizi, di credenze dogmatiche, di costumi e privilegi non basati sulla natura e sulla ragione, deve certo il suo sviluppo soprattutto alla filosofia e alla scienza dell’Europa occidentale che, dopo il forte impulso del razionalismo del francese Cartesio, ne supera i rischi di una ricaduta in verità metafisiche e astratte, mercè la congiunta attività del grande scienziato inglese Newton e di filosofi, come l’inglese Locke, per il quale ogni conoscenza proviene dai sensi attraverso i quali si rivela una ragione confermata dall’esperienza, per poi affermarsi e diffondersi, con forza polemica e combattiva, mercè l’opera di Voltaire e del gruppo dei pensatori francesi che collaborarono alla compilazione della grande Enciclopedia intesa a portar luce nuova su tutti gli aspetti della vita e della conoscenza umana, a combattere ogni pregiudizio e fanatismo, ad assecondare la fondazione di una civiltà interamente basata su leggi di verità e di morale naturale, razionale e universale, valide per gli uomini di qualsiasi origine e paese (donde il cosmopolitismo, l’appartenenza di tutti gli uomini illuminati a una specie di patria comune superiore ad ogni divisione nazionale), promotrici di fraternità umanitaria progressiva e destinata a una convivenza felice e laboriosa. E insieme il pensiero piú complesso di Rousseau arricchisce l’illuminismo di una piú forte carica egualitaria e democratica e di una valorizzazione crescente del sentimento e dei valori attinti alla schietta e materna natura (il cui stato perfetto primitivo andrebbe riconquistato contro una civiltà corruttrice e troppo fiduciosa nella sola ragione), che dall’illuminismo aprono la via verso il romanticismo.

Ma se l’illuminismo ha le sue origini piú immediate e i suoi promotori piú arditi e originali nella cultura europea occidentale, non si deve dimenticare quanto questa dovesse al pensiero rinascimentale italiano e alla scienza sperimentale galileiana, né si deve ridurre l’illuminismo italiano ad una semplice «colonia» dell’illuminismo inglese e francese. Ché esso – mentre aveva già notevoli presupposti nell’epoca razionalistica di primo Settecento – si presenta ricco di personalità e di ambienti che non solamente ricevono dall’esterno, ma sono capaci di elaborare proprie teorie, opere e attività riformatrici, e di collaborare originalmente con lo sviluppo generale della civiltà illuministica, anche se con certe remore tradizionali e religiose (in gran parte dovute all’ostilità conservatrice della Chiesa, in Italia piú attiva e potente che altrove) che danno all’illuminismo italiano un carattere di maggiore prudenza e insieme un carattere piú minutamente pratico (piú riformatore che rivoluzionario), anche a causa delle maggiori immediate necessità e difficoltà di un rinnovamento che doveva fare i conti con una realtà economica, politica, sociale piú complicata dalle diversità dei numerosi stati in cui la penisola era divisa, e dalla maggiore arretratezza di partenza di un paese che aveva da superare la grave e negativa eredità della dominazione spagnola e della repressione culturale della Controriforma durante il Seicento.

E tuttavia – malgrado tali condizioni piú difficili e tali caratteri di minore libertà e possibilità di pieno e ardito sviluppo – l’illuminismo italiano rappresenta una attiva zona del grande movimento illuministico e, per la nostra storia nazionale, un momento essenziale di rinnovamento, assai superiore a quello piú modesto già rappresentato dal rinnovamento dell’epoca arcadico-razionalistica.

Già nell’ultima zona della prima metà del secolo si avverte una maggiore incisività e aggressività innovatrice, di cui può essere considerato significativo esempio e maggiore rappresentante Francesco Algarotti (Venezia 1712-1764), educato nella cultura e nella letteratura arcadico-razionalistica, ma assai presto entrato in rapporto (durante i suoi numerosi viaggi europei) con i nuovi pensatori e letterati inglesi e francesi, e cosí vòlto ad un tipo di letteratura che, pur nella sua raffinatezza espressiva, mirava alla diffusione di nuove idee scientifiche (come avviene per i nuovi principi dell’ottica di Newton nel giovanile Newtonianismo per le dame, rivolto alle donne e perciò insaporito da una squisita galanteria, ma teso da una chiara volontà di rinnovamento culturale specie nei confronti della situazione italiana) o alla relazione di esperienze di viaggio in paesi lontani, descritti sia nel loro fascino pittorico sia e piú nel loro vivo interesse di istituzioni, di costumi, di condizioni economiche e politiche (il caso esemplare dei Viaggi di Russia con la loro prosa spigliata e alacre), o alla discussione di problemi storici, artistici, letterari e linguistici, tutti corrispondenti alla ricchezza di interessi di questo letterato “filosofo” e tutti significativi in una prospettiva nuova di letteratura agile e divulgativa, combattiva, moderna, anche se colorita con un gusto di classicismo utilizzato per una maggiore precisione e nitidezza dell’espressione.

Con l’Algarotti affiorano chiaramente esigenze che già vanno al di là della letteratura arcadica, proponendo l’ideale di una letteratura e di una poesia “utile”, divulgatrice di cognizioni ed esperienze, collaboratrice del progresso scientifico e civile sia generale sia piú particolarmente italiano, a cui lo scrittore piú assiduamente si appassiona, consapevole della necessità di una riforma dell’Italia perché questa possa prendere il suo posto degno nella nuova civiltà europea.

Ma certo in questo originale e acuto scrittore permangono limiti di cultura, di coraggio innovatore, di eccessiva cura letteraria, che vengono meglio superati nelle prospettive piú decisamente illuministiche del secondo Settecento, quando in varie parti d’Italia le nuove idee dimostrano la loro maturazione piú piena e la loro piú radicata consistenza storica nel loro carattere di risposta ai problemi generali della civiltà dei lumi e ai particolari problemi delle singole, concrete regioni italiane: problemi tanto meglio affrontati con precise proposte riformatrici quanto piú trovano appoggio propizio nei nuovi governi assolutistico-illuminati.

2. L’illuminismo milanese

Tale è la situazione anzitutto del gruppo illuministico lombardo, che appare come il piú compatto e combattivo, specie nel piú fortunato e fecondo periodo dei due primi decenni del secondo Settecento, quando la stessa opera riformatrice del governo austriaco permette e agevola (e lo vedremo anche nel caso del Parini) una battaglia culturale e civile assai ardita, coerente, fertile di opere che ben meritarono diffusione, fama e influenza europea.

Si tratta di un gruppo di giovani intellettuali raccolti nella «Società dei pugni» (nome significativo per l’ardore combattivo dei suoi componenti) e poi fondatori e collaboratori di un vivacissimo giornale «Il Caffé» che, nella sua breve vita (1764-1766), fu il periodico illuministico piú importante d’Italia e la maggiore fucina di idee, proposte, discussioni, con cui i due fratelli Verri, Cesare Beccaria, Gian Rinaldo Carli, Alfonso Longo, Paolo Frisi e altri intendevano coraggiosamente inserirsi nel grande movimento illuministico europeo e aggredire e rinnovare le condizioni della cultura, della letteratura, dell’economia, del diritto della Lombardia e di tutta l’Italia, di cui (pur nel loro fondamentale cosmopolitismo) sentivano il carattere di patria nazionale entro un’Europa costituita di nazioni libere e unite dal comune proposito di progresso e di lotta contro l’oscurantismo, i vecchi pregiudizi, il grave peso di leggi e istituzioni contrarie alla natura e alla ragione.

Perciò il «Caffè» (cosí chiamato in quanto le discussioni del giornale si immaginavano svolte in un moderno caffè e non in una delle vecchie e pedantesche accademie) si occupava con estrema spregiudicatezza degli argomenti piú vari, da quelli piú vasti del commercio, dell’agricoltura, delle varie scienze o della letteratura, del teatro, della lingua, fino a quelli magari dell’utilità delle stufe nelle case italiane vaste e fredde, legandoli tutti in una prospettiva di “pubblica utilità”, di progresso e di pratica attuazione delle nuove idee illuministiche, che, specie nel particolare contesto della situazione lombarda, portò alcuni di questi intellettuali a diventar piú tardi funzionari e alti burocrati dell’amministrazione austriaca riformatrice e illuminata (è il caso di Pietro Verri) e poi collaboratori equilibrati e liberi della repubblica democratica instaurata dai francesi.

Nel gruppo del «Caffè» l’animatore piú combattivo fu certo Pietro Verri (Milano 1728-1797), cui si devono non solo gli articoli piú validi nel centrare gli obbiettivi della polemica di questi illuministi lombardi (anzitutto l’ignoranza che vuol contrapporre la cieca autorità alla ragione, i vincoli in materia economica contrari alla libertà del commercio essenziale alla prosperità pubblica, o, in campo letterario, l’attacco agli “aristotelici delle lettere” fermi alla eleganza formalistica delle “parole” e ad una lingua antiquata e insensibile alle “cose”, e cioè ai contenuti sostanziali e nuovi e ad un linguaggio moderno e spregiudicato), ma anche opere vigorose di economia, di politica, di diritto, legate a una comune legge di libertà (Della economia, Meditazioni sulla felicità, Osservazioni sulla tortura), opere di storia (la Storia di Milano), opere filosofiche ed estetiche: come il Discorso sull’indole del piacere e del dolore che acutamente analizza gli oscuri e densi grovigli della sensibilità fra dolore e piacere, e punta sulla funzione stimolatrice ed energetica del dolore, a cui il Verri affida la stessa origine del piacere estetico nato come fuga dal dolore e dal tedio, come rappresentazione di sensazioni dolorose, convertite dall’arte in piacevoli e rasserenanti sensazioni.

In questa vasta raggiera di interessi e di problemi il minore fratello di Pietro Verri, Alessandro (1741-1816), porta (nel fervido periodo giovanile di collaborazione al «Caffè») un brillante contributo di articoli, che ribadiscono la fondamentale avversione del suo gruppo ad una letteratura e ad una lingua antiquata e la loro preferenza per “idee” e “cose”, rispetto alle “parole”, a costo di ricorrere a termini stranieri dove manchino termini italiani per indicare cose e idee nuove (come soprattutto egli fa con il celebre articolo Rinunzia avanti notaio degli autori del presente foglio periodico al Vocabolario della Crusca), o portano avanti posizioni di elogio del cuore e del sentimento contro il frigido e astratto razionalismo, che già si protendono verso quel passaggio da sensismo a sentimentalismo preromantico che Alessandro, come vedremo piú tardi, svilupperà nella sua piú tarda attività di scrittore.

Ma tanto piú centrale, e vicino a Pietro Verri per l’importanza e il peso delle proprie opere illuministiche, è Cesare Beccaria (Milano 1738-1794), cui si deve soprattutto il saggio Dei delitti e delle pene (1764) che scosse l’attenzione non solo lombarda e italiana, ma europea, e suscitò una lunghissima e appassionata discussione, tanta era la forza dirompente di quel trattato, che (associando il rigore razionalistico delle argomentazioni e un fortissimo entusiasmo umanitario) dimostrava l’arbitrarietà e l’oscurità di tante leggi penali ancora vigenti in quegli anni, affermava la necessità di una proporzione fra i delitti e le pene e il dovere piú preventivo che punitivo delle leggi penali, violentemente attaccando, nella loro crudeltà e nella loro inutilità, sia i procedimenti atroci della tortura sia la stessa pena di morte. Se questo libro luminoso fu l’opera piú ispirata e geniale del Beccaria, non saranno poi da sottovalutare quelle Ricerche intorno alla natura dello stile che, attraverso una minuta analisi delle sensazioni e delle passioni, impostavano i principi di un’estetica sensistica tesa ad una concezione della letteratura la cui “meta essenziale” fosse quella di «imitare la natura col distinguere, avvicinare e far risaltare gli oggetti in quella maniera che producano il massimo di impressione, il piú vivo, cioè il piú chiaro e il piú distinto possibile» (su di una via che trova chiare corrispondenze nella poetica e nella poesia del Parini), né saranno da dimenticare altri scritti e trattati importanti nella storia dell’economia (Elementi di economia pubblica) e nel generale movimento riformatore illuministico.

Accanto agli altri esponenti dell’illuminismo lombardo, oltre ad Alfonso Longo, particolarmente aperto ai problemi piú propriamente sociali, a Paolo Frisi, piú dedito a problemi scientifici, a Gian Rinaldo Carli (nato a Capodistria), valido economista e storico, passato piú tardi a posizioni conservatrici, dovrà poi rilevarsi la personalità piú ardita e aggressiva del trentino Carlantonio Pilati (1733-1802), soprattutto espressa in un libro, Di una riforma d’Italia ossia dei mezzi di riformare i piú cattivi costumi e le piú perniciose leggi d’Italia, che con ossessiva, ma efficace insistenza, puntava soprattutto sui danni provocati alla vita civile italiana dal prepotere della Chiesa cattolica che egli (in accordo con la politica riformatrice del governo austriaco) intendeva ridurre e sottoporre al controllo dei sovrani illuminati.

3. L’illuminismo meridionale

L’altro maggiore centro dell’illuminismo riformatore italiano è Napoli, la capitale del regno meridionale, dove già il primo Settecento aveva avuto la spinta feconda dei giuristi anticurialisti, e aveva dato vita alle grandi opere del Vico e del Giannone, e dove – sotto il governo piú illuminato dei Borboni – confluivano le fresche energie di personalità provenienti da tutte le parti del meridione, con l’urgenza dei concreti e gravissimi problemi di regioni abbandonate per secoli alla miseria e allo sfruttamento feudale e con una tanto maggiore tensione riformatrice, poco realizzata in riforme concrete da parte del governo volenteroso, ma incerto e incapace di sostenere un’opera cosí imponente: tanto che il problema del Meridione rimarrà gravissimo persino nell’Italia unita e addirittura sino ai nostri giorni. Tale mancanza di realizzazione (certo piú attiva nella Lombardia austriaca, in un accordo piú fecondo fra governo e intellettuali illuministici) e la forte tendenza filosofica meridionale non possono però condurre ad accettare interamente il tradizionale giudizio secondo cui l’illuminismo meridionale sarebbe solamente teorico e astratto, privo di quella concretezza e di quel pratico spirito riformatore piú riconosciuto all’illuminismo lombardo. In realtà la forte propensione degli illuministi meridionali alla teorizzazione generale, all’elaborazione di nuove dottrine sui principi dell’economia, del commercio, del diritto, delle istituzioni civili, si alimenta anche della considerazione dei problemi concreti del Regno di Napoli e delle sue varie regioni, in un fecondo ricambio di teorie e di esperienze che non può essere in alcun modo dimenticato.

Massimo promotore dell’illuminismo a Napoli e maestro di tanti piú giovani intellettuali fu Antonio Genovesi, nato in Provincia di Salerno nel 1713 e morto nel 1769 a Napoli, dove fu professore universitario di metafisica e di filosofia morale, ma soprattutto svolse il suo alto e fecondo insegnamento, alimentato da una forte passione morale (cosí evidente e suggestiva nella sua autobiografia), applicando il suo energico ingegno filosofico alla fondazione della scienza economica, convinto com’era che il «vero fine delle lettere e della scienza» (che è il titolo di un suo importantissimo scritto) fosse quello di «giovare alle bisogne della vita umana» e che quindi il suo maggiore compito fosse quello di investigare e rinnovare gli studi economici, le leggi dell’economia e del commercio, nella loro generale natura e nella loro applicazione alle condizioni miserevoli dell’Italia meridionale. Ciò che il Genovesi fece nelle sue Lezioni di commercio o sia di economia civile, di fama europea, appoggiando le sue teorie e proposte economiche con una rinnovata ripresa della polemica anticurialista e antiecclesiastica e con un tentativo piú prudente e incerto di affrontare gli stessi temi dei fondamenti e dell’esercizio politico nella piú tarda opera, la Diceosina, che voleva essere una vasta sintesi della sua filosofia morale applicata ai problemi della società e del governo.

Fra i suoi allievi e fra i numerosissimi illuministi meridionali piú intonati alle sue idee spicca la personalità di Gaetano Filangieri (1753-1788), autore di un’opera grandiosa, La scienza della legislazione, ispirata ad una generosa ed entusiastica fiducia nei “lumi della ragione”, ma insieme (e dunque tutt’altro che in forma tutta astratta e facilmente ottimistica) mossa a discendere dai principi generali nel concreto della situazione presente, specie meridionale, studiandone con spietato acume le piaghe incancrenite, proponendo riforme energiche e realistiche e combattendo anzitutto la persistenza del baronaggio feudale e la sproporzione fra il piccolo numero dei proprietari e quello enorme dei nullatenenti.

Ma quante indicazioni si possono trarre per un lungo e fecondo sviluppo dell’illuminismo meridionale, che moltiplica insieme le sue formulazioni teoriche, le sue proposte di riforme, fattesi tanto piú audaci nel gruppo di intellettuali che dettero vita (a fine secolo) alla repubblica partenopea e al suo generoso sforzo tragicamente fallito di dare al meridione nuove istituzioni democratiche!

Si ricorderanno almeno le personalità del pugliese Giuseppe Palmieri, aristocratico, aspirante nei suoi numerosi scritti a una riforma antifeudale promossa dagli stessi proprietari terrieri e inquadrata da leggi intese a spazzare via ostacoli e intralci alla produzione e alla distribuzione dei beni, o quella del molisano Giuseppe Maria Galanti, autore di una Descrizione delle Due Sicilie, implacabile documentazione dei mali secolari del meridione, o quella del suo conterraneo Melchiorre Delfico, autore di Pensieri sulla storia e su la incertezza e inutilità della medesima, espressione polemica di uno spirito di ribellione contro l’ossequio tradizionale verso una storia che perpetua mali consacrati dal tempo e dall’autorità di antiche opinioni, o quella del lucano Francesco Mario Pagano (1748-1799), fervido pensatore di problemi storici (in cui si può risentire certa influenza vichiana) e appassionato difensore della libertà estesa ai ceti popolari e perciò attivo partecipe alla rivoluzione napoletana, alla costituzione della repubblica partenopea, e martire della successiva reazione borbonica: come ugualmente sul patibolo, nel ’99, concluse la sua breve vita e la sua attività di pensatore politico e sociale piú rivoluzionario Vincenzo Russo. Piú singolare per la sua personalità estremamente originale e complessa, e per le sue posizioni di illuminista piú spregiudicato e sin genialmente paradossale, è certamente Ferdinando Galiani (Chieti 1728-1787). Giovanissimo egli si impose all’attenzione italiana ed europea con il trattato Della moneta, acutissima analisi della realtà e del valore economico e della funzione che la moneta vi assume come mezzo di scambio. Con l’appoggio della fama conquistata con quel libro, il Galiani trovò facilmente, durante un lungo soggiorno a Parigi, contatti e scambi di idee con i maggiori illuministi francesi, confermandovi la sua qualità di conversatore arguto e brillante e traendone spunto per una nuova opera di carattere economico, scritta in un vivacissimo francese – Dialogues sur le commerce des blés – e animata da una brillante e circostanziata critica della teoria dell’assoluta libertà del commercio dei grani predominante nell’ambito illuministico francese «fisiocratico» e cioè fiducioso nell’assoluta libertà del commercio dettato dalla stessa legge della natura.

Con le posizioni di quest’opera il Galiani, illuminista di spirito e di formazione, rivelava però anche le sue eccezionali qualità di osservatore concreto e realistico, la sua capacità di distinguere le diverse situazioni economiche e sociali dei vari paesi che egli giudicava bisognose di distinti modi di governo e di provvedimenti economici, e quindi tali da smentire le leggi troppo generali e dogmatiche sostenute dai suoi amici e avversari dell’illuministica «fisiocrazia». E, pur fra pericoli reazionari, questo singolare illuminista-antiilluminista denunciava certamente i limiti e gli eccessi di certo dogmatismo e di certa illimitata fiducia illuministica nella natura e nella ragione, con uno spirito di concretezza e con uno sforzo di argomentazione lucida e briosa che valgono per la loro tendenza antiastratta nella storia del pensiero economico e storico e si traducono nell’alta qualità di una prosa vivacissima e duttile, arguta e paradossale, che pone il Galiani fra gli scrittori piú originali del Settecento. Né tali qualità artistiche mancarono di rivelarsi anche fuori del campo filosofico ed economico, in un trattato molto originale sul dialetto napoletano e in un melodramma comico, il Socrate immaginario, che – scritto in collaborazione con il librettista Lorenzi – è una briosa, comica parodia della mania filosofica e classicistica del tempo, vista alla luce di quel buon senso popolare e realistico che il Galiani tanto amava e valorizzava.

4. L’illuminismo in altri stati e regioni d’Italia

Se Milano e Napoli sono i due centri piú cospicui e fecondi dell’illuminismo italiano, non si creda però che nel resto della penisola la civiltà dei lumi e lo spirito delle riforme illuministiche siano rimasti interamente inoperanti o soffocati da condizioni di arretratezza e di repressione di poteri politici o ecclesiastici.

Certo piú armonica e feconda di attività promosse dallo spirito illuministico si presenta la situazione della Toscana, in cui l’iniziativa riformatrice di un sovrano illuminato, quale fu il granduca Pietro Leopoldo permise agli intellettuali piú avanzati di svolgere studi, ricerche, elaborazioni teoriche in piú sicura rispondenza alle esigenze della loro regione e cosí di cooperare anche come amministratori e funzionari con lo stesso governo toscano: come fu soprattutto il caso degli economisti e politici Pompeo Neri e Francesco Maria Gianni o quello degli eruditi Giovanni Lami e Marco Lastri, editori di una rivista «Le novelle letterarie» che, accanto a notizie e saggi di cultura e letteratura, dedicò viva attenzione alla riforma economica e agraria della Toscana. Laddove in altri stati regionali, come il Veneto e il Piemonte, piú difficile fu l’espressione delle istanze illuministiche e riformatrici a causa del governo conservatore e sospettoso della Repubblica veneziana e di quello, ancor piú duramente oppressivo, dei principi di Savoia.

Sicché in quegli stati l’illuminismo si presentò o in forme estremamente moderate e prudenti (e a volte stravolte in aspetti di acre reazione alla fiducia nella ragione, come è il caso del veneziano Giammaria Ortes, pessimistico, ma acutissimo indagatore della scienza economica), o trovò grande difficoltà alla formazione di gruppi compatti e combattivi (sarà il caso, sempre nel Veneto, di alcuni illuministi, Alberto Fortis, Elisabetta Caminer, Giovanni Scola raccolti intorno ad una rivista «Il giornale enciclopedico» e poi «Nuovo giornale enciclopedico»), o addirittura sfociò in una specie di attrito e di ribellione con i propri governi e in piú solitarie esposizioni di esacerbato spirito innovatore. Si pensi, in quest’ultimo senso, al Piemonte e a quegli intellettuali che furono costretti o a «spiemontizzarsi» (secondo l’espressione che per sé usò l’Alfieri) e cercar maggiore libertà fuori della loro regione, o a subire gravi difficoltà e persino persecuzioni e prigionia: già nel periodo preilluministico di primo Settecento il caso di Alberto Radicati di Passerano, e poi quello dei due fratelli Vasco, Dalmazzo Francesco (1732-1794) e Giambattista (1733-1796), autore il primo di un Saggio politico intorno ad una forma di governo legittima e moderata da leggi fondamentali e di altri saggi violentemente anticonformistici e liberali. E persino un personaggio tanto piú moderato quale fu Carlo Denina (1731-1813), piú capace di vaste complicazioni che di forti idee innovatrici (fra queste soprattutto importante il libro Delle rivoluzioni d’Italia, disegno piuttosto superficiale della storia italiana), fu costretto a cercare protezione presso Federico II di Prussia, a Berlino, dove piú tranquillamente attese ad altre numerose opere dedicate o a illustrare i suoi viaggi (Le lettere brandeburghesi) o a descrivere la letteratura prussiana (La Prusse littéraire), con un metodo di storia letteraria (già applicato nel precedente libro Discorso sopra le vicende della letteratura) che si avvale del nuovo spirito illuministico nella ricerca di un nesso fra letteratura, cultura, condizioni storiche e persino climatiche.

E comunque, persino nello Stato Pontificio, cosí retrivo e gravato dal peso di un’autorità religiosa e politica tutt’altro che favorevole alle nuove idee illuministiche, gli studi piú recenti hanno messo in luce alcuni intellettuali o romani o confluiti a Roma da altre parti d’Italia (come il romano Nicola Corona o il piemontese Francesco Cacherano di Bricherasio) che pur portarono un loro contributo, specie alla nuova discussione sui problemi economici e tentarono, con scarso successo, di promuovere riforme, approfittando di qualche maggiore spiraglio di volontà riformatrice del governo papale.